Silenzio ed il denaro

Silenzio, oltre al nome particolarmente bizzarro, aveva un’altra curiosa caratteristica:
non sapeva rapportarsi con il denaro, nel senso che non lo sapeva guadagnare e nemmeno spendere con quelle attenzioni che normalmente le persone mettono quando trattano con i loro soldi.
Nell’infanzia e nell’adolescenza la disponibilità di denaro era sempre stata esigua, per non dire minimale, l’abitudine alla rinuncia era arrivata in fretta e altrettanto rapidamente Silenzio aveva imparato a dare un valore alle poche cose che riusciva a possedere. Uno degli insegnamenti indiretti del padre era stato appunto quello, trasformare le cose che il destino gli metteva nelle mani in qualcosa di esclusivo, meravigliosamente unico, anche se si trattava di poveri oggetti. La macchinina rossa senza portiere nè cofano, per esempio era un go-kart dal valore inestimabile con il quale giocare nel corridoio trasformato nella pista più bella del mondo, La pistola di plastica con la canna fintamente metallica era l’arma micidiale del pirata più audace dei caraibi, gli animaletti che abitavano il cespuglio di malva in fondo al cortile, rossi con il dorso che rappresentava uno scudo africano, erano guerrieri per le battaglie… Tutto questo non aveva nulla a che fare con il denaro, con i costosi soldatini dei compagni di scuola, con le pistole che sembravano vere e con tutto quello che i negozi di giocattoli offrivano a chi se lo poteva permettere. La fantasia sostituiva i soldi, non c’erano invidia, autocommiserazione o tristezza, piuttosto una beata inconsapevolezza rispetto a come sarebbe potuto essere se ci fossero stati soldi da spendere. Entrare in un negozio a guardare i giocattoli provocava un sincero stupore piuttosto che un desiderio di possesso, tutta quella bellezza non era nemmeno avvicinabile quindi, perchè soffrire? Si tornava a casa e, nella scatola in cui trovavano posto i soliti giochi si poteva pescare la solita macchinina ed immaginare che fosse quella vista in negozio, tanto le corse in corridoio le vinceva lo stesso.

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Asociale

Vengo spesso definito in questo modo perché non mi piace la folla, perché quando mi capita qualcosa di bello sto in silenzio e lo assaporo. Non mi piace fare il turista, correre da un monumento all’altro, fare foto a raffica, e mangiare nella trattoria caratteristica che ti spela come un pollo. Non mi piace filmare con il telefono i concerti, non mi piace fare ore di coda per andare al mare a fare la coda per comprare un pezzo di focaccia e pagare per un lettino su una spiaggia di sassi e sabbia riportata. Non mi piace fare le cose solo per dire di averle fatte.
Non mi piace essere un “cliente”, un “gentile ospite”, un “collaboratore”.
Voglio essere dentro le cose, non sopra, voglio vivere i posti e non vederli soltanto. Se non mi posso permettere qualcosa non accetto surrogati, preferisco farne a meno, è meno frustrante. So che è una posizione molto discutibile e non mi aspetto certo che venga condivisa, ma rispettata si.
Forse dipende dalla disponibilità di denaro, a diciotto anni non era un problema dormire in una aiuola con il sacco a pelo e mangiare scatolette di tonno soprattutto perché magari lo facevo per rimanere a Umbria jazz qualche giorno in più: ero “dentro” il festival, era un tutt’uno, fame, concerti e jazzisti per la strada.
Oggi è diverso, ti fanno pagare tutto, ti devono vendere tutto e sembra che ti facciano un favore, e se non spendi ti guardano male, devi spendere, devi fare finta di non sapere che ti prendono in giro perché se no si offendono: “Ma come, questo è un riso biologico con una riduzione di verdure biologiche in un piatto biologico con posate biologiche e tu rompi le palle perché lo vendo a venticinque euro!?” … Ma va a cagare, tu e il tuo risotto!
Sono asociale perché percepisco una truffa psicologica, perché è tutto un tirarsela per sembrare qualcosa che non si è, perché non trovo più onestà intellettuale, verità, empatia. Mi basta guardare gli occhi delle persone per capire, mi basta il linguaggio del corpo, ci metto due minuti e capisco se ho davanti uno stronzo.
Si, sono asociale e presuntuoso ma, in ogni caso, non mi avete avuto e non mi avrete mai.

Ansia?

Se ci fosse una parola diversa la userei. Quando le cose ti agitano anche senza motivo, quando invece di assaporare un momento inaspettato lo subisci perdendo la bellezza. Quando nel profondo del cuore sai che quel progetto che ami tanto non funzionerà. Succede quando l’esperienza ti fa perdere l’audacia incosciente. Succede quando qualcuno si svela per ciò che è davvero. Succede quando i tuoi limiti ti cadono addosso tutti insieme senza pietà. È la vita? C’è un’altra parola?

Verde cielo

Il pianoforte a mezza coda riempiva il palco, lucido e solenne attendeva l’artista che, ritardava l’ingresso dietro una porta con vetri verde opaco. L’evento aveva richiamato sia amanti della musica che professionisti della presenza a tutti i costi. Stiamo lì, seduti, distanziati, aspettando e lasciandoci divorare dalle zanzare. Ad un certo punto arriva il sindaco con fidanzata al seguito, altissima, svolazzante in un abito rosa confetto e perfettamente calata nel ruolo.

Il primo cittadino presenta la serata e finalmente il pianista suona.

È un jazzista, bravo, mescola jazz e canzoni, improvvisa molto, si lascia andare e ce lo spiega: “non so cosa suonerò” , penso che un po’ è vero ed un po’ è giustamente mestiere.

La musica rimbalza il cielo cambia colore, ad un certo punto è verde, come le finestre che lo riflettono, quando scende il buio le finestre sono illuminate dall’interno, e hanno ancora una tonalità verde, ci sarebbero mille foto da fare ma il telefono certe sfumature non le prende. Davanti a me c’è una ragazza con dei lunghi capelli, ogni tanto se li aggiusta, li solleva, li raccoglie, forse per il caldo, ogni volta che lo fa mi arriva del profumo. Musica, profumo, cielo verde, è una bella serata, sto lì, ascolto, guardo e, per un po’ riesco a non pensare ad altro se non a quel cielo affogato in quelle finestre verdi.

Il deserto

Il deserto ha due caratteristiche, il silenzio ed il disorientamento. Fai pochi passi e quando ti volti indietro non riconosci più il percorso che hai fatto per arrivare dove sei. Sei in un non luogo, nel silenzio puoi sentire il tuo respiro e quel vento leggero che ti porta via. La solitudine si amplifica, i desideri spariscono, siete tu ed il tuo deserto, quello che nessuno vede, quello che non puoi raccontare, quello che “insomma datti una mossa”, come se dipendesse davvero da te. Nel deserto non devi piangere perché sprechi acqua preziosa, non devi urlare perché nessuno ti sente, puoi solo camminare, verso dove non si sa. Quando il deserto ti prende, ti ha preso, punto. Lascia stare gli altri, non gridare nel deserto, lui si occupa di te per come ne è capace, disorientandoti e tenendoti muto.

La versione umana

Antefatto

I fatti sono noti, usciamo dall’amministrazione straordinaria il 31 ottobre 2013, prima del ponte dei morti, infausto presagio.

Il 50% dei dipendenti infatti, dal punto di vista lavorativo, sostanzialmente, muore.

Ci compra un imprenditore straniero ma con base in Italia, inizia un periodo pesantissimo, lui si comporta come se quello che non conosce non esistesse ma la struttura amministrativa, contabile, la programmazione dei sistemi, l’organizzazione dei villaggi, vanno tenute in piedi, lavoriamo malgrado lui che nel frattempo ci maltratta. Non dura nemmeno tre anni, crolla la banca che lo sostiene, crolla la sua architettura discutibile. Panico, ancora panico. La distribuzione ed i clienti non ci tradiscono.

Il futuro è luminoso!

Aprile 2016, ci compra un fondo di investimento con una ottima reputazione. Non abbiamo nemmeno il coraggio di crederci, un imprenditore vero, vuoi vedere che lavoriamo bene? vuoi dire che, per una volta, è andata bene? Vuoi vedere che impariamo qualcosa?

Prendono una delle strutture più rinomate della Sardegna, fanno proclami, mettono soldi, un giorno ci convocano tutti nello spazio più grande degli uffici, il nuovo presidente sale in piedi su una scrivania ed esordisce dicendo: “Il futuro è luminoso!” Le cose cambieranno, saremo di nuovo grandi!

Roba da lacrime agli occhi, lui è un motivatore formidabile, parla davanti ai figli dello “straniero” che diventano piccoli, piccoli. Ci torna nel cuore la forza e la determinazione che stavamo perdendo, vogliamo solo lavorare per il bene nostro e dell’azienda che poi sono la stessa cosa.

Facce nuove

Arrivano facce nuove, CFO italiano, direttore commerciale spagnolo che viene dall’hotellerie, direttore prodotto spagnolo (in sovrapposizione con quello esistente) cominciamo a parlare, ci confrontiamo, guardiamo numeri. Qualcosa stride, non ci capiamo, ragionano da albergatori, si intuisce una certa distanza tra quello che vogliono e quello che hanno da gestire, vengono da mondi diversi, in un certo qual modo meno complessi della nostra realtà, non sanno niente di 74ter, di trasporti, non hanno minimamente idea di come ci si comporti con la distribuzione, con le agenzie di viaggio, chiedono indicatori di performance che i sistemi non sono in grado di fornire, confondono “beneficiario” con “beneficienza”, chiedono stupiti perchè ci siano persone che fanno ogni giorno cento km in treno per venire a lavorare, in pratica vengono da Marte…   

Testa bassa e lavorare, cerchiamo di allinearci e speriamo che, in qualche modo, scendano a terra, capiscano, sono top manager, sicuramente è colpa nostra che non siamo abbastanza bravi per essere alla loro altezza, li prendiamo sul serio, crediamo che sappiano quello che fanno. Ci manteniamo umili. Arrivano i “consulenti” che devono implementare un cambio radicale dei sistemi, sia per la contabilità che per le vendite: riunioni interminabili, tempo prezioso perso a spiegare spesso l’ABC a gente che usa parole come “CASH AFTER PENDING OUTFLOW” o “BOTTLE NECK” ma alla quale devi spiegare dieci volte come gira l’iva sulle autofatture delle agenzie di viaggio. Sono sinceramente convinti che in qualche mese si possa migrare l’intero storico commerciale e contabile su nuove piattaforme. I professionisti contattati dai consulenti, quando sentono queste richieste mettono per iscritto che, non solo non è possibile ma che è “altamente rischioso” e rifiutano il lavoro (in pratica dicono: “voi siete matti”)

La Sorpresa

Intanto cominciano a vedere i conti, qualcosa non torna, si scopre la gestione “particolare” del proprietario precedente, cadono dal pero con una ingenuità imbarazzante, attaccano la società di consulenza che ha seguito la Due Diligence. Non avevano letto niente, tutti pensavano che lo avesse  fatto qualcun altro. Noi li guardiamo stupefatti e facciamo quello che c’è da fare per andare avanti.

Cambio di passo

In seguito a questa grossa sorpresa, il “presidente motivatore” viene esautorato e viene nominato un amministratore delegato, una donna che arriva dal fallimento di una catena alberghiera, siamo nella prossimità delle festività natalizie, il primo gesto ufficiale dell’A.D. è quello di far togliere gli alberi di natale dislocati per gli uffici. Non che ci importasse più di tanto ma, dal punto di vista della comunicazione interna è un segno importante. La signora non parla con nessuno dei dipendenti, mai. Ascolta solo i suoi consulenti e scalpita per “creare la sua squadra”. Chiama rapidamente un gruppo di fuoriusciti dalla catena alberghiera di cui sopra, li strapaga e urla nei corridoi che “finalmente sono arrivati”.

In un albergo del centro viene organizzato un incontro con tutti i dipendenti nel quale verrà presentato il nuovo assetto aziendale e la nuova dirigenza. L’intervento dell’A.D. è freddo, aggressivo, sgradevole, negatività e disprezzo per tutti, chi osa fare domande viene incenerito. Appena lei comincia a parlare, il presidente finge di ricevere una telefonata ed esce dalla sala per non rientrare più.

Con un colpo di mano che in seguito porterà alla perdita di cause di lavoro ed esborsi non indifferenti, vengono cacciati gli ultimi direttori di struttura provenienti dalla vecchia gestione ed il direttore di prodotto “storico”. Il CFO (che giustamente, fa gli interessi del fondo) viene messo alla porta con una buonuscita poderosa, per non dire imbarazzante.

 I responsabili della gestione e gli economi di vecchia data vengono sostituiti da neolaureati gettati allo sbaraglio senza nessun affiancamento o formazione. Sono rimaste famose alcune telefonate in sede durante le quali, quei disgraziati piangevano.

I nuovi arrivati non parlano con nessuno, si comportano come se fossero depositari della verità assoluta, dicono cose del tipo “adesso vi insegniamo a lavorare”, tra loro e i due spagnoli non c’è alcuna sinergia, ognuno va per la sua strada… a fari spenti.

Come per tutti però, arriva la prova sul campo, devono decidere, assumersi responsabilità, fare strategia, dimostrare insomma la loro reale competenza.

Naturalmente vanno a sbattere su una realtà aziendale complessa, articolata, che richiede impegno e flessibilità mentale, capacità di interazione con il mercato, i fornitori, i clienti.

La massima espressione della loro professionalità è terziarizzare tutto il possibile e rispondere ai sottoposti che necessitano direttive “fate come facevate l’anno scorso”. Inoltre la boria e la supponenza provocano disastri, una su tutte la dichiarazione della proprietà di una delle strutture più importanti che a metà estate dice agli uomini del fondo: “o fuori loro o fuori noi, paghiamo la penale e usciamo dal contratto!” I clienti intanto scrivono peste e corna su trip-advisor.

Lugano

Il fondo non sta a guardare, la competenza per il controllo dell’azienda viene spostata dalla sede di Barcellona a quella di Lugano, intanto le spese aumentano, le società terziarizzate fanno notare che gli accordi non vengono rispettati, i lavoratori protestano, il prodotto non è all’altezza delle aspettative dei clienti.

La tensione sale, invece che soluzioni si cercano colpevoli, attaccano noi, purtroppo per loro possiamo certificare di avere sempre ubbidito alle loro strampalate direttive ed in alcuni casi di avere segnalato per tempo delle criticità, sempre con i numeri alla mano. Cominciano a scannarsi tra loro, chiacchiere contro slides colorate, non ci riguardasse da vicino, ci sarebbe da ridere, passano le notti in ufficio e non producono niente. L’A.D. viene convocata più volte a Lugano, in sede arrivano dei controller svizzeri, noi forniamo per la centesima volta le informazioni che non sanno leggere, intanto si lavora per mandare avanti la stagione, è come se ci fossero due aziende.

Il management continua a chiedere soldi, il fondo vende tre strutture acquistate pochi mesi prima, a Cassa Depositi e Prestiti e incassa soldi già spesi. Iniziamo a preoccuparci, di nuovo…

L’estate va avanti, con piccoli aggiustamenti, in qualche modo si salva la faccia, almeno all’esterno non si percepisce ancora il disastro imminente.

Internamente invece l’aria è pesantissima, gli svizzeri stanno mangiando la foglia, capiscono con chi hanno a che fare, sembra che nei CDA il boss svizzero zittisca perentoriamente l’A.D. sottolineando bugie e incompetenza.

Noi continuiamo a lavorare, ognuno nelle proprie possibilità, cerchiamo di fare meglio che possiamo per dare supporto ai villaggi ed al gruppo dirigente che spesso è più interessato ai rimborsi spese che all’azienda.

Usciamo dall’estate con risultati discutibili ma non disastrosi almeno dal punto di vista dei riempimenti e del fatturato, piccoli incrementi sui prezzi medi e sul gradimento. In fondo un trend positivo, lieve, ma positivo.

Dal lato dei costi, una tragedia fuori controllo.

Inverno

Si comincia a lavorare per l’inverno, lo faremo con solo tre villaggi, per i quali vengono fatti proclami in merito a ristrutturazioni totali, investimenti, ricchi premi e cotillons.

Anche in questo caso però, in realtà si naviga a vista, arriviamo a ridosso delle aperture, senza che le promesse roboanti si siano concretizzate, a parte qualche mobile nuovo, costosissime sedie glamour nelle aree comuni, ed il rifacimento (necessario da tempo) di qualche soffitto e pavimento, tutto resta come prima.

In una struttura in particolare, a tre giorni dall’apertura, manca una parte delle attrezzature delle cucine!

Per Natale apriamo, eroicamente, le persone che lavorano nelle strutture e che hanno una qualche esperienza riescono ad andare avanti ma, le terziarizzazioni selvagge cominciano a mostrare i loro limiti, soprattutto quando si deve lavorare in emergenza (cioè sempre)

Dopo le festività si comincia ad intravedere l’intenzione del fondo che, avendo ormai capito che quel gruppo dirigente non è affidabile, è sempre più propenso ad uscire il più rapidamente possibile dall’investimento, la questione è diventata un fatto personale tra i funzionari del fondo ed il mangement, in particolare l’A.D.

Intanto gli animatori scioperano perchè non vengono pagati, parlano con i clienti, ci vanno pesante. Ogni settimana è un’avventura pagare gli impianti di risalita le cui proprietà minacciano puntualmente di sospendere il servizio, gli altri fornitori non vengono pagati.

TripAdvisor ci massacra come al solito.

Ad un certo punto decidono di chiudere in anticipo, bisogna spiegare che abbiamo preso soldi dai clienti, dalle agenzie, dagli operatori esteri, dai gruppi, che sarebbe un disastro… miracolosamente capiscono e abbandonano l’idea.

I fenomeni cominciano a rendersi conto del disastro, i segnali dal fondo sono sempre più chiari. Sulle prime sembra che si voglia fare una riduzione delle strutture per mantenere solo quelle realmente redditizie, inizia il balletto dei villaggi “rossi” (da dismettere) e di quelli “verdi” (da mantenere), si sente parlare di “New Company” e “Old Company”, la solita manfrina utilizzata per mettere i debiti sotto il tappeto…

 Lavoriamo, produciamo numeri, consuntivi, analisi storiche etc.

Intanto apriamo le vendite per l’estate, su tutte le strutture, si parte bene, buoni contratti con l’estero, un po’ di gruppi, clienti diretti ed agenzie, il mercato non immagina nulla di quanto si sta preparando.

A febbraio inoltrato, nel momento in cui normalmente si stanziano i soldi per implementare l’inizio della stagione estiva, arriva la bomba: CONCORDATO LIQUIDATORIO, porteranno i libri in tribunale. Il fondo non metterà più un centesimo se non per quello che riguarda la chiusura definitiva dell’azienda.

Entrano in gioco manager di lungo corso e studi legali potentissimi per disegnare questa fine ingloriosa e mitigare la figuraccia del fondo con la reputazione dei miei stivali.

Noi ancora nel panico, arrabbiati, sfiniti e sfiduciati, non è la prima volta che succede, è un film già visto purtroppo. Sindacato, bandiere, giornali, televisione, social e tutto il contorno, intanto loro, vanno avanti spediti, smontano l’azienda un pezzo alla volta, nel silenzio totale.

La politica

Siamo, o meglio, eravamo un brand importante, tramite il sindacato ed i social si riescono ad avere contatti con il MISE che convoca le parti più volte senza risultato se non una certa visibilità per i politici interessati, siamo sotto elezioni, tutto serve… a loro.

Il nostro liquidatore se può si nega, altrimenti dice solo quello che il fondo gli dice di dire.

Nessuna delle proposte avanzata dal sindacato viene considerata, il titolare del fondo, convocato direttamente dal ministro del lavoro non risponde nemmeno. Una volta, la mail che non accettava le proposte fatte dalle parti sociali, esce dalla segreteria del liquidatore due ore prima della fine della riunione!

Quello che si vede è che per i dipendenti non c’è scampo, siamo una specie di “danno collaterale” in una battaglia nella quale non abbiamo voce.

Capiamo sulla nostra pelle che la politica non controlla minimamente l’economia e la finanza, l’impatto occupazionale sia nelle regioni dove sono ubicati i villaggi, sia per la sede di Milano, non viene minimamente considerato, peraltro la nostra vicenda si mescola a situazioni anche più grandi e tragiche, siamo nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

Stavolta tocca a noi.

Pochi giorni prima della richiesta di concordato vengono restituite alcune strutture importanti, e fatte alcune operazioni eufemisticamente “dubbie” nel silenzio assordante di tutti.

Epilogo

Il 12 di marzo viene dato lo “stop sales” alle vendite dell’estate, un colpo di cannone sul mercato che fatica a crederci e si scatena per recuperare gli acconti già versati.

A noi nessuna comunicazione se non la copia della lettera che, per legge, deve essere inviata alle parti sociali, a partire dall’A.D. nessun dirigente dice nulla, girano per gli uffici storditi, e cercano di scaricare la colpa sul fondo, vorrebbero la nostra comprensione dopo un anno e mezzo di disprezzo e sufficienza. Ad uno a ad uno transano l’uscita con ricche gratifiche da sommarsi agli stipendi stellari che hanno preso per tutto questo tempo.

Alla fine di marzo, finalmente, ci viene comunicato che l’ultimo giorno di lavoro sarà il 15 giugno, restiamo per più di due mesi abbandonati a noi stessi, senza informazioni, senza lavoro, negli uffici silenziosi e mezzi vuoti.

Le voci relative all’interessamento di qualche imprenditore al perimetro abbandonato dal fondo sono sempre più deboli, anche perchè si delineano le strategie della proprietà:

Asta per la vendita del marchio e dismissione di tutte le strutture in tempi rapidissimi.

Le convocazioni presso il ministero del lavoro non danno nessun risultato, si va spediti e frastornati verso la fine.

Arriva il giorno fatidico, venerdi 15 giugno, ci convocano tutti, in una sala riunioni, tre avvocati procederanno alla consegna delle copie delle lettere di licenziamento (gli originali arriveranno per raccomandata R/R) mentre aspettiamo, passa l’A.D. che, si stupisce e chiede: “cosa fate tutti qui?” … non sapeva nemmeno cosa stesse succedendo.

La procedura prevede che, dopo la firma per “presa visione” della lettera, si venga accompagnati alla propria postazione di lavoro ed il computer viene prelevato e portato nella sala riunioni. Viene chiesto se si hanno in dotazione beni aziendali, qualcuno risponde “UNA VITA DI LAVORO”, i più preferiscono tacere, incassiamo l’oltraggio in silenzio, storditi.

Per noi, l’avventura finisce qui.

Finalmente parla

Il 25 giugno, a giochi praticamente conclusi, finalmente il titolare del fondo parla, rilascia un’intervista che esce nell’inserto economico del corriere della sera, la questione viene liquidata in poche battute:

  • “Ci sono sempre piaciute le scommesse difficili. Pensavamo di farcela ma, per la prima volta dopo 52 investimenti, non ci siamo riusciti”
  • “abbiamo imparato a nostre spese che il settore turistico in Italia è diverso da quello europeo”.

Tutto qui, cinquant’anni di un brand, centinaia di dipendenti, un indotto con un impatto gigantesco sul territorio, un numero considerevole di fornitori grandi e piccoli che avevano creduto in questa nuova avventura, un milione di pernottamenti l’anno, tutto questo buttato via con un ridicolo “Pensavamo di farcela”. Mi piacerebbe essere un investitore del fondo per poter chiedere se, con i miei soldi, pensano di farcela o è meglio che li spenda prima che vengano bruciati in qualche altra “scommessa difficile”.

In fondo, quello che rende insopportabile tutta questa storia, è la sciatta noncuranza, dei personaggi, la loro saccenza incompetente, lo spreco di denaro e di professionalità.

Brucia il fatto di pagare per loro, per gente il cui costo per il parcheggio nel centro di Milano  era superiore alla media degli stipendi dei dipendenti, gente che è ancora nominata nei C.D.A. di importanti società o ha ruoli manageriali di altissimo livello.

Alla fine qualcosa sono riusciti a insegnarcela: Farla franca è un’arte sottilissima.

Il riassunto di questa avventura potrebbe continuare per molto, ci sarebbero aneddoti e comportamenti che meriterebbero di essere raccontati ma non è questo il senso di questo scritto, volevo solo cercare di mostrare cosa abbiamo vissuto, quale aria pestilenziale abbiamo respirato, quali stupidaggini abbiamo dovuto sentire e subire, tutto qui.

A Marruecos

Nei primi anni ’80 il viaggio in Marocco era obbligatorio, un po’ perchè l’hashish ti tirava fuori dalle polveri pesanti, un po’ perché se volevi, portavi indietro due o tre etti di “zero-zero” imboscati in qualche modo ed alzavi un po’ di soldi, un po’ perché ci andavano tutti.

Nei week end a Barcellona avevamo conosciuto un certo Ramon, che aveva conoscenze ed una casa in Ketama, la regione del Marocco dove era legale la coltivazione della canapa, il paesino da raggiungere aveva un nome tipo “Bab Berred”, quello che contava era che il tassista a cui chiedevi di portarti capiva dove volevi andare, in fondo la maggioranza dei ragazzi occidentali andavano tutti da quelle parti. Io sapevo per certo che il mio amico Massimo, per i marocchini “Machìmo” era là da un po’, in una fattoria poco lontano dal paese.

Parto in treno da Genova, con un uno di quei biglietti scontati validi per due o tre mesi.

A Ventimiglia salgono i doganieri, ovviamente mi vedono in faccia e mi perquisiscono il bagaglio, altrettanto ovviamente non trovano nulla e ci restano male quando scambiano una cintura arrotolata e chiusa in un sacchetto di plastica per un pezzo di fumo. Mi restituiscono il passaporto e se ne vanno.

Lola

Mi faccio la Francia dormendo e all’alba arriviamo a Port Bou, si deve cambiare treno perché lo scartamento dei binari in Spagna è diverso. Ci ammassiamo in una sala d’aspetto e lì noto una ragazza minuta, con degli scarponcini gialli, ci guardiamo, anche lei viaggia sola. Si avvicina, è spagnola, di un posto che si chiama L’Alcudia, vicino a Valencia, studia a Firenze, sta tornando a casa, parliamo un po’ in inglese, un po’ in italiano, si chiama Lola. Saliamo sul treno insieme. Intanto si fa giorno, sole, aranceti fuori dal finestrino, lei parla tantissimo, ora solo in spagnolo, capisco un terzo di quello che dice, annuisco, sorrido, butto lì qualche parola, mi piace non essere solo, lei ha i capelli corti, nerissimi come gli occhi, ed è una buona compagnia. Il treno della Renfe fa tutte le fermate, un viaggio eterno, quando nel pomeriggio arriviamo a L’Alcudia, lei mi dice “non sei stanco? fermati a dormire da me, domani riparti”. Accetto, è vero, sono stanco, un letto mi attrae parecchio.

Scendo con lei, andiamo a casa sua, non c’è nessuno, un piccolo appartamento di due stanze, per dormire noto che ci sono solo un letto ed una poltrona, mangiamo qualcosa e poi andiamo da un suo amico per passare la serata, non ricordo come si chiamava, era uno molto tranquillo, piacevole, chiacchieriamo fumando, lui racconta che spesso passa la frontiera di Algeciras con il fumo nella custodia rettangolare del passaporto appesa al collo, senza troppe precauzioni, sostenendo di essere tranquillo perché passava “para la cara”, per la faccia che assumeva quando incontrava i doganieri… non ci credo ma è bello da immaginare.

Al momento di andare, mi vende un pezzo di fumo e mi regala una pasticca verde e bianca, “para el viaje”, dice,” per il viaggio” …  non so perché ma non chiedo cosa sia, mi convinco che sia una qualche amfetamina per tenermi su.

Torniamo a casa, sono stanchissimo, lei si rannicchia in poltrona, io mi butto sul letto e sprofondo in un sonno di pietra. Ho pensato spesso a quella notte, al fatto che forse avrei dovuto cederle il letto, che forse si poteva chiacchierare ancora un po’, che forse sono stato egoista, con il senno di ora mi rendo conto che stavo già entrando nella dimensione un po’ allucinata di quel viaggio.

Viaggiare da soli, soprattutto la prima volta, cambia la percezione della realtà, non hai riferimenti, a volte sei spaventato da cose piccolissime e a volte non percepisci situazioni estremamente pericolose, mancano appunto riferimenti esterni alle tue sensazioni, la lingua diversa, i sapori, gli odori, i paesaggi ti confondono, sbagli spesso a valutare le cose, se poi non sei nel pieno della forma fisica, la cosa prende pieghe insospettabili.

Il mattino dopo sto relativamente bene, Lola mi indica la strada per la stazione ferroviaria, ci salutiamo, non ci scambiamo l’indirizzo, e nemmeno il numero di telefono, non ci sentiremo mai più.

Algeciras

Mi incammino ed ho un ricordo chiarissimo di un momento particolare, sto camminando in un viale con una inferriata bianca alla mia sinistra, ritrovo nella tasca la pillola bianca e verde, con la leggerezza di un idiota, non mi domando cosa sia, forte della convinzione della sera prima, la butto giù.

Arrivo in stazione, e salgo sul treno, mancano più di settecento chilometri per Algeciras, trovo uno scompartimento vuoto e mi siedo. Dopo un po’ comincio a sentire gente che parla e fa confusione, sono seduto vicino al finestrino, il paesaggio è diventato molto più… arabo, non so come dire, sono cambiate le architetture ed i colori. Intanto il rumore delle voci aumenta e comincio ad avere l’impressione che qualcuno stia camminando nello spazio tra il finestrino e la parete esterna del vagone, cosa tanto impossibile quanto reale, almeno nella mia testa. Non c’è nessuno con cui valutare questa sensazione e, soprattutto non mi viene in mente che potrebbero essere gli effetti della pillola bianca e verde…

Mi agito, non capisco e prendo sul serio le “presenze” nello spazio impossibile, sembra stiano ridendo di me. Finalmente arriviamo ad Algeciras, scendo dal treno e mi siedo su una panchina davanti alla stazione, ad un certo punto vedo una comitiva di ragazzi, li conosco, alcuni sono compagni di scuola, mi avvicino per salutare e non mi riconoscono, anzi, mi cacciano in malo modo. Ci resto malissimo, continuo a non rendermi conto dello stato in cui mi trovo.

La stazione non è lontana dal porto, devo fare il biglietto per Ceuta, arrivo in ritardo per l’ultimo traghetto, è quasi sera, il prossimo sarà l’indomani mattina, devo trovare da dormire, volendo risparmiare trovo una pensione economica, vado in camera ed anche lì ho strane sensazioni, mi sembra che le pareti siano sottilissime, come di compensato, dall’altra parte sento litigare, urlano in spagnolo, colpi sulla parete. Mi spavento, non mi piace la situazione, saranno le dieci e mezza di sera, mentre cercavo un posto per dormire avevo intravisto un albergo molto “occidentale” vicino all’imbarco dei traghetti ma lo avevo scartato immaginando il prezzo. Decido di andare lì, vado dalla signora che sta all’ingresso della pensione e dico che me ne vado, pago lo stesso la stanza ma vado via.

Esco, è buio, stradine deserte, mentre cammino mi giro e vedo uno che mi segue, mi agito, e adesso? Allungo il passo e lui fa lo stesso, penso velocissimo, scappo? Decido di affrontarlo, mi fermo e mi giro di scatto, pronto a chissà cosa, lui si ferma a due metri da me e alza una mano… “Hombre!  Pasaporte, tranquilo!” Ha in mano il mio passaporto, lo avevo dimenticato alla pensione.

Trovo l’albergo che avevo visto, prendo una stanza, faccio una doccia, mi infilo nel letto e finalmente dormo.

Tetuan

Al mattino faccio il biglietto e prendo “el barco”, il traghetto per Ceuta, è pieno di gente, mi fissano, devo avere una faccia terribile, mi faccio la traversata tutta in piedi, con gli occhi degli altri passeggeri come spilli nella schiena, continuo ad essere alterato e a non rendermene conto. Tocchiamo terra, faccio dogana senza problemi e finalmente sono in Marocco! Prendo un autobus per Tetuan e, quando arrivo, è quasi mezzogiorno, sole abbagliante, caldo. Sto un po’ meglio, probabilmente gli effetti della stramaledetta pasticca stanno calando. Oggi, dopo quarant’anni, non sarà più così ma mi ricordo una città praticamente divisa in due dalla strada che percorrono gli autobus, una parte alta, già moderna ed occidentale, ed una parte a valle più antica e sgangherata, decisamente, il Marocco che mi aspettavo è quello lì sotto.

Cerco un bar, mi siedo fuori e chiedo un thè alla menta, lo portano bollente e profumato, mentre lo bevo, cerco di fare il punto sul da farsi, c’è ancora della strada da fare ma c’è una cosa che non avevo previsto, in quegli anni, se eri un ventenne occidentale ed eri a Tetuan, era fortemente probabile che tu fossi in Marocco per “il business”. Questo pensavano i ragazzi marocchini che ti assillavano con proposte di acquisto o con richieste di soldi, sigarette, scambio di magliette al grido di: “Italiano, capisci, amici, hashish!!!”

Questo mi stava capitando mentre ero seduto in quel bar ed ero costretto a minacciare di chiamare la polizia per mandare via tutti quei personaggi. Ad un certo punto arriva uno, barba fatta, maglietta pulita e jeans, si presenta, Hassan, parla un buon italiano, dice di essere stato in Italia, nessuno si avvicina più al tavolo. Io ero esausto, anche solo parlare un po’ di italiano mi faceva bene, chiacchieriamo, mi chiede se sto andando in Ketama ed io, stupido, rispondo di si. Mi dice che potrei fare una strada un poco più lunga ma che passa per il mare, lui ha un bungalow sulla spiaggia, passiamo di lì e poi proseguo per il Ketama. Ci casco, come un fesso, ci casco con tutti i piedi.

Mezz’ora di taxi e siamo al mare, il “bungalow” è un capanno buttato sulla spiaggia in mezzo al nulla, dentro è sporco e palesemente disabitato da mesi, mi lascia lì e dice “aspetta, torno subito”, torna dopo dieci minuti con altri due, grossi, brutte facce. Mi preoccupo e faccio finta di niente ma mi scende un brivido lungo la schiena, rollano una canna e mentre fumiamo, tirano fuori cinque o sei sacchetti di polline (di hashish), “buon business! buon business!” dacci i soldi e andiamo. Dico chiaro che non sono lì per quello, che non mi interessa, che non ho chiesto niente. Si incazzano, alzano la voce, gesticolano agitatissimi. Io mi vedo sgozzato e sepolto in una spiaggia della quale non so nemmeno il nome. Mi sale quella paura che ti raggela, penso a come trovare una via d’uscita, ad un tratto mi viene in mente il racconto di un mio amico che frequentava il Marocco da tempo, “Ricordati, se loro gridano, tu grida più forte, se si arrabbiano tu arrabbiati di più, hanno soggezione degli occidentali!” E’ l’unica cosa che posso fare, mi alzo rovesciando la sedia e urlo mandandoli affanculo, esco dal capanno e vedo che il taxi è ancora lì, mi dirigo verso la macchina, metto cinquanta dirham in mano al tassista e gli urlo di tornare a Tetuan, intanto arrivano anche loro, incazzati ma meno aggressivi, parlano in arabo con il tassista e capisco che vogliono tornare a Tetuan con la stessa macchina, insieme a me. Non lo posso evitare, partiamo, Hassan davanti, io dietro con i due tizi. La strada ha spesso delle deviazioni su stradine più piccole, mi sembra di capire che i due, sempre in arabo, cercano di convincere il tassista ad imboccarne una, io gli sbatto sulla spalla altri cinquanta dirham e urlo “Tetuan!, Tetuan!”, lui mi ascolta e dopo altri dieci minuti di insulti siamo alla stazione degli autobus. Scendo e vedo uno in divisa, lo punto deciso, bestemmiando, mi giro ed i tre non ci sono più. Sono agitatissimo, salgo nella parte alta e chiedo una stanza nel primo albergo decente che incontro. Salgo e resto lì per due giorni, scendendo solo per mangiare. Tanto c’è voluto per farmi passare la paura, non ho vergogna ad ammetterlo.

Forse ho ingigantito una situazione poi non così pericolosa, forse la pillola maledetta non era smaltita del tutto, francamente non saprei, quello che so è che è andata così e me la sono fatta sotto.

Chefchaouen

Quando decido di ripartire, avendo speso troppo negli alberghi, scelgo di muovermi in autobus invece che in taxi come previsto. Torno alla stazione degli autobus e mi accorgo che tutte le indicazioni sono in arabo, non capisco niente, nemmeno dove si trovi la biglietteria, c’è una confusione pazzesca. Ad un certo punto si avvicina un ragazzino, avrà undici o dodici anni, “Italiano? Ketama? Business?”, “No, Vacaciones”, rispondo. Mi guarda sorpreso, non capisce, nella sua logica gli occidentali vogliono solo il fumo. “Chefchaouen!” mi dice, “Fantastic Place!”. Con una fatica enorme ci spieghiamo: Lui si offre di aiutarmi a fare il biglietto e a trovare l’autobus giusto a patto che paghi il viaggio anche per lui. Non potendo fare altro, accetto, il biglietto costa poco, saliamo e si parte, lui si siede lontano da me, io ad un certo punto sento parlare italiano, due sedili dietro di me c’è una coppia di italiani, mi avvicino, li saluto, hanno più o meno la mia età, sono un po’ fighetti, lei bruttina, lui scostante, non danno confidenza. Mollo il colpo e torno al mio posto. Italiani, brutta gente.

Mi godo la strada ed il paesaggio che cambia, si vedono le montagne, la vegetazione è più verde, sono tranquillo e sto decisamente meglio.

Arriviamo, scendo e vedo il ragazzino sparire nella confusione, la città è sul fianco di una collina, oggi la chiamano la città blu, io ricordo con certezza che era bianchissima, abbacinante sotto il sole. Salgo per un po’ e dopo una piazza inondata di sole, lungo una salita, c’è una specie di pensione. Entro, il locale è circolare, ci sono delle nicchie con tavoli e sedie per mangiare, sopra una balconata di legno dipinta di verde con le porte delle camere. Il proprietario è anziano, barba grigia e kaftan, è gentile, mi dice che c’è posto. Saliamo di sopra e mi mostra la stanzetta, letto, brocca e catino per lavarsi, finestra piccola che guarda il paese. Mi piace, dico che resterò qualche giorno parlando uno spagnolo che sembra veneto ed un po’ di inglese.

Dopo essermi sistemato, esco e mi faccio un altro giro per il paese, ci sono botteghe di artigianato, gente che lavora la pelle, ed a volte, girando un angolo, paesaggi sorprendenti. Torno nella piazza, c’è una specie di bar, si entra scendendo alcuni scalini, il locale è letteralmente scavato sotto il livello della piazza per almeno un metro e mezzo, è fresco e accogliente, il thè con un mazzetto di menta affogato dentro è una meraviglia.

Passo due o tre giorni così, mi sveglio, faccio colazione con thè e certi dolcetti misteriosi, passeggiata poi, a pranzo, taijne o cous cous e, una volta, pesce fritto nonostante il mare sia a più di settanta chilometri. Al pomeriggio thè alla menta nel posto in piazza. La sera, zuppe di verdura delle quali ignorerò per sempre il nome e poi a letto presto.

El Muerto

La mattina del quarto giorno decido di ripartire, raggiungo la spianata dove si era fermato l’autobus e scopro che per continuare verso il Ketama ci sono solo taxi, niente autobus. Ci sono due o tre macchine, vecchie Mercedes in pessimo stato, mi avvicino alla prima, l’autista è magrissimo, pallido, per essere marocchino, chiedo: “How much for Bab Berret?” lui mi guarda senza sorpresa e mi fa un segno con le mani, settanta dirham, per rispetto, contratto, la chiudo a cinquanta e salgo. La strada è più che altro sterrata, si snoda con curve sul fianco della collina, a volte sul ciglio di ripide scarpate, a volte su pendii più dolci. Si cominciano a vedere i campi arati, la terra è scura, spezzata in grosse zolle nere e lucide. La mia meta si avvicina, so che il mio amico è ospite in una fattoria nei pressi del paesino, ma non ho idea se il posto abbia un nome, so solo che nei racconti di chi ci era stato ricorreva insistentemente un nome, “Sono arrivato dall’Hajashi”, “l’Hajashi ha detto”, “l’Hajashi ha fatto” etc.

Quando intravedo le prime case del paese, la butto lì, “Hajashi?”, il tassista incredibilmente si gira e mi dice “Machìmo!, italiano, I know!” Ci resto di sasso, mi sembra incredibile, questo conosce il mio amico!

Superiamo il paese e ad un certo punto si ferma sul ciglio della strada, mi fa segno di guardare a destra, lungo il pendio c’è un sentiero che scende ed in fondo una costruzione ricoperta di lamiere ondulate, ci sono macchine parcheggiate ed un camper. “Machìmo, Hajashi!”  mi dice indicando il posto. Scende dalla macchina e mi fa segno di seguirlo. Prendo le mie cose e imbocchiamo il sentiero di sassi e polvere. Arriviamo davanti alla casa, la prima persona che noto è un ragazzo, certamente marocchino, appoggiato ad una Renault 12 azzurra con delle righe bianche sulle fiancate, sembra un’auto da rallye, lui ha un cappellino da baseball, una di quelle magliette americane da rugby, jeans e Adidas ai piedi, tiene in mano un Walkman ed ha le cuffiette. L’anacronismo di quell’immagine, rispetto al posto in cui siamo è immenso. Ci sono altre persone, il tassista parla in arabo con uno di loro e sento ancora pronunciare il nome del mio amico. Mi si avvicina uno sui trent’anni, più alto di me, sorride. “Machìmo està arriba”, mi dice indicando una costruzione più piccola un po’ più in alto, “Espera”. Dopo un minuto, vedo scendere Massimo, “Non ci credo! Sei venuto!” mi dice abbracciandomi, “Ti ha portato el Muerto?” scopro così che il tassista magrissimo lo conoscono bene e lo chiamano appunto “El Muerto”. In fondo il mondo è sempre piccolissimo ed io sono arrivato dove volevo arrivare.

Hajashi

Vengo a sapere che il tipo con cui ho parlato è il mitico Hajashi, il padrone di casa, il ragazzo “americano” è uno dei suoi fratelli, fissato con l’America, Michael Jackson e con tutto quello che è occidentale.

Mi sento un po’ stordito e stanco, forse è un crollo di adrenalina. Entriamo in casa, mi accompagnano in una stanzetta, c’è una branda con una coperta a righe, Massimo arriva con una scodella di thè bollente con dei boccioli verdi che galleggiano, “bevi”, è buona!” Effettivamente il sapore è dolce, gradevole. La bevo seduto sulla branda, dopo dieci minuti mi viene sonno, mi stendo pensando “cinque minuti”: Mi sono svegliato la mattina dopo, decisamente riposato, Massimo non mi ha mai detto cosa fossero quei boccioli ma, ogni volta che glielo chiedevo, rideva.

La casa era in muratura e, sia le pareti esterne che il tetto, erano rivestite con lamiere ondulate, messe ad una certa distanza così il sole di giorno le scaldava e nella notte lo spazio tra lamiera e muro manteneva il caldo.

C’era un cortile esterno, con un paio di tavoli e delle panche, un po’ più su, dietro la casa, c’era il forno dove veniva cotto il pane, ancora più in alto c’era “La Tienda” una specie di negozio dove si potevano acquistare sigarette, anche Marlboro ad un costo esagerato, oppure certe orribili marche marocchine al confronto delle quali le Nazionali Esportazione erano una specialità. Si poteva comprare anche latte condensato in tubetti simili al dentifricio e le mitiche “Galletas”, biscotti duri come il ferro e dal sapore di segatura pressata. A sinistra, salendo ancora si arrivava ad un piccolo spazio dove una lamiera deviava il corso di un fosso per l’irrigazione creando una piccola cascata sotto la quale ci si poteva lavare.

Noto che nella casa vivono due uomini anziani, l’Hajashi, il fratello “americano”, altri due fratelli più piccoli e due donne che si vedono fugacemente solo quando si mangia. Poi ci sono gli occidentali, il mio amico Massimo che però dorme “arriba” (Sopra), nella casa che scopro essere del famoso Ramon di Barcellona e che al momento è via, c’è una coppia di Torino, sui quarant’anni, Ennio e Margherita, che sono i padroni del camper, ed infine un ragazzo di Bilbao, Suki, che è lì con una due cavalli. Quando incontro di nuovo Hajashi gli consegno i due “regali” che mi avevano consigliato di portare, mascherine tipo quelle che si usano nei cantieri contro la polvere e che a loro servono quando battono le piante per non inalare troppa sostanza e delle sementi di due o tre tipi di insalata per il loro orto. Lui apprezza e mi ringrazia.

Il momento del pasto è in qualche modo particolare, in pratica il cibo viene portato nella stanza dove stanno gli anziani, che non è sempre la stessa, e quindi bisogna stare sempre all’erta. Ci danno una pagnotta appena cotta ed il cibo viene messo al centro della stanza, dopo che si sono serviti gli anziani, possiamo mangiare anche noi. Ricordo una cosa che aveva un nome tipo “Duadr” non l’ho mai capito bene, una montagna di pezzi di carne fatta allo spiedo con un contorno di ceci affogato in un condimento molto grasso, si prendeva un pezzo di pane, si inzuppava tirando su anche un po’ di ceci, e si mangiava con la carne. Non so se era la fame ma era esageratamente buono. Anche certe uova fritte nel grasso erano molto apprezzate.

Business

Le giornate sono pigrissime, si fuma e si chiacchiera e, con la flemma del caso, ognuno si dedica alle sue occupazioni. La casa ha una specie di officina, i due torinesi, con l’aiuto del fratello ”americano”, stanno tagliando la bombola del gas del camper all’altezza della saldatura superiore, la parte sotto sarà riempita di hashish poi, verrà saldato un disco di metallo come tappo, rimessa la parte superiore (quella con la valvola) e nello spazio che resta verrà pompato il gas in caso di controlli. In teoria avrebbe dovuto funzionare, non ho mai saputo come sia finita, per tutto il tempo che sono rimasto, la bombola riposava, aperta, all’ingresso dell’officina.

Suki invece, aveva un altro progetto, foderare di hashish compresso i cerchioni della due cavalli, rimontare gli pneumatici e tornare a casa con quella “farcitura”, anche in quel caso però, il lavoro non era nemmeno iniziato, la macchina aveva le ruote montate ed il buon Suki faceva tutt’altro.

Io mi interesso di come avviene la “produzione”, vedo il piccolo capanno dove viene fatta la battitura delle piante essiccate su setacci di varia dimensione e finezza. Mi fanno assaggiare lo “Sputnik”, l’hashish fatto con il polline più fine, quello che cade la prima volta che batti la pianta, un colpo solo su un setaccio molto fine. Quello non lo vendono, lo tengono per loro. Le battiture seguenti sono sempre più grossolane a scapito della qualità. Si va dallo “Zero-Zero” fino a quello che Massimo chiama il “fumo del palo”, ricavato da un’ultima battitura appunto fatta con un palo sulle piante ormai esauste. Non so se queste denominazioni siano “locali” o definite dagli occidentali, tant’è che comunque questo è il vocabolario usato per capirsi. C’è la possibilità di comprare sia le piante ancora da battere, sia l’hashish già pronto nelle varie tipologie.

Mi fanno vedere le presse a mano, una specie di torchi, che si usano per schiacciare il polline e trasformarlo in placche di un paio di centimetri di spessore, in ogni caso, con l’uso del vapore, l’hashish può essere modellato come si vuole. In un sottotetto vedo molti sacchi di juta pieni di “Caramellos” e “Bollas”.

Cullaros

IL mio amico Massimo li chiamava “Cullaros”, non so da dove avesse avuto origine quella definizione che descriveva in modo onomatopeico quelli che, principalmente marocchini, trasportavano in Spagna l’hashish nascondendolo nell’orifizio anale.

Le “bollas” erano ovuli di varia dimensione che venivano confezionati per questo scopo, i “caramellos” erano più piccoli, capsule di cinque o sei centimetri di lunghezza per uno o due di larghezza, che venivano ingeriti e poi espulsi, dovevano essere relativamente grandi per fare in modo che nell’intestino stessero allineati.

Per ambedue le tipologie il procedimento di preparazione prevedeva prima il riscaldamento dell’hashish con il vapore, la modellazione nella forma e nel peso previsti e poi si avvolgeva tutto nel Domopak. Successivamente si scaldava della cera d’api e vi si immergevano gli ovuli per creare un involucro che li proteggesse dagli acidi dello stomaco. Il procedimento era molto più accurato per i caramellos che per le bollas per ovvi motivi.

Osservando le dimensioni delle bollas ero stupito, non capivo come fosse possibile inserirli, alcuni erano del peso di un etto e mezzo, enormi. Massimo diceva “ci fanno l’abitudine”. Io ero agghiacciato, in ogni caso, vista la quantità prodotta il sistema doveva essere molto in auge non solo tra i marocchini.

Mentre visitiamo il sottotetto capisco che l’ Hajashi non mi ha portato lì per caso, vuole concretizzare la mia presenza a casa sua con una qualche forma di transazione: business is business.

A soldi ormai sono messo malissimo, se spendo per comprare non riesco a tornare a casa, mi accordo per un baratto, una borraccia termica, un paio di scarpe da ginnastica e due magliette per una ventina di caramellos.

Lui è soddisfatto, io ho il problema di portarmi a casa il fumo anche perché capisco che il mio soggiorno presso di lui è finito, devo partire, non è che posso rimanere a vita…

Virgilio

La sorte mi viene in aiuto, un paio di giorni prima erano arrivati due tizi di Milano, un certo Virgilio e un altro di cui non ricordo il nome, che senza nessuna poesia, erano arrivati esclusivamente per comprare e andarsene il prima possibile, avevano comprato quasi mezzo chilo di zero-zero e si erano fatti i caramellos da soli, secondo me troppo piccoli, pericolosi, perché potevano ammassarsi nell’intestino, la cera si scalda alla temperatura interna e si possono creare degli agglomerati che sono troppo grandi per passare, il rischio era un blocco intestinale durante il viaggio, ci potevi lasciare la pelle. Qualcuno glielo fece notare ma loro non sentirono ragioni, “sapevano tutto loro”.

In ogni caso si erano accordati con Suki per farsi dare un passaggio (pagando) fino a Tetuan con la famosa due cavalli, mi offro di partecipare alle spese e accettano di portare anche me.

La mattina dopo ci si sveglia prestissimo per prepararsi e soprattutto per “mangiare le caramelle”.

Ci fanno trovare del the tiepido e delle galletas, ci sediamo intorno ad un tavolo e si comincia, quando osservo i miei caramellos mi viene un accidente, sono giganteschi, mi scappa un “ma come faccio?”, il fratello dell’Hajashi capisce, più dalla faccia che da quello che dico, mi dà una pacca sulla spalla e mi dice “es una cosa de hombres, vamonos!”, è vero, è una cosa da uomini, devo farlo e basta. Prendo il primo lo metto in bocca per il lungo, prendo un piccolo sorso di the e lo butto giù. Mi ricordo ancora quell’attimo, la sorpresa nel sentirlo scendere senza fatica, la stupida soddisfazione di fare “una cosa de hombres”. Ogni tre o quattro caramellos una galleta, cinque minuti ed è finita, nessun fastidio, tutto a posto. Gli altri due ci mettono di più, sono un po’ pallidi, tanta chiacchiera ma se la fanno sotto. Mentre aspetto, vado a cambiarmi, ho tenuto per tutto il viaggio un paio di jeans ed una camicia in un sacchetto di plastica chiuso, nella pia illusione che non si impregnassero dell’odore dell’hashish e che eventuali cani alla frontiera potessero essere ingannati.

Finalmente finiscono anche loro, Suki è pronto da un bel po’, salutiamo e saliamo in macchina, mentre stiamo per partire, l’Hajashi, inspiegabilmente, ci dà un sacchettino con dentro sei o sette grammi di fumo: “para el viaje”…

Ma sei scemo? Cortesemente rifiuto, ma Virgilio, il coglione, dice “no, no, prendiamolo!” Suki ci guarda esterrefatto.

Tant’è che si parte con ‘sto sacchetto. Durante il viaggio fumano, quindi tutto il mio piano “anti cane” va letteralmente in fumo, anche se era una precauzione sciocca, in qualche modo mi rassicurava, volevo fare così e non potevo. Mi incazzo e sto zitto. Arriviamo a Tetuan, non mi sembra nemmeno la stessa città, ho altri occhi, non quelli della pillola bianca e verde, è tutto più tranquillo. Suki ci saluta e se ne torna indietro, i due milanesi vogliono comprare souvenir, io nel frattempo vado a farmi fare la barba, per cinque dirham ti fanno un servizio meraviglioso, panno bollente, rasoio, the alla fine. Quando ci ritroviamo, prendiamo un taxi per Ceuta, chiedo cosa ne è stato del fumo dell’Hajashi, mi dicono che se ne sono liberati, non si poteva fumare tutto… Bene così.

La Furgoneta

Il taxi ci molla a duecento metri dalla frontiera marocchina che poi è praticamente costituita da un paio di cubicoli con uno sportello come quello delle biglietterie degli stadi, ci avviciniamo, c’è fila, i due milanesi sono davanti a me, abbiamo i passaporti in mano e andiamo avanti lentamente, cerco di “mettere su una faccia da turista” ricordando l’amico di Lola che diceva “para la cara”. Siamo a dieci metri dallo sportello, ormai nelle viste dei doganieri, Virgilio, davanti a me si china per prendere qualcosa dallo zaino e… tac! dal polsino del giubbotto di jeans cade per terra un pezzetto di fumo avvolto nella carta stagnola! Se potessi lo ammazzerei, ‘sta testa di cazzo! Se pizzicano lui ed il suo amico, prendono anche me, vaglielo a spiegare che non siamo insieme, tre italiani in mezzo a spagnoli e marocchini.

Lui va avanti e io metto la mia sacca sul pezzo di fumo, sbircio il doganiere vicino allo sportello, non ci guarda. Al passo successivo, metto il piede sul pezzetto e cerco di seppellirlo tra i sassi, avanziamo ancora per un paio di metri, non mi volto nemmeno a vedere se la stagnola brilla al sole. “para la cara”, “para la cara”, “para la cara”, mi ripeto nella testa. I due pagliacci di Milano mostrano i passaporti… passano, tocca a me, il doganiere mi guarda, guarda il passaporto e dice: “Furgoneta”, indicando con gli occhi alla mia destra. Mi giro e vedo un vecchio furgone Volkswagen senza ruote con due doganieri vicino, uno mi fa segno di avvicinarmi. Muoio. “para la cara”, “para la cara”, “para la cara”, ‘sta cosa mi gira in testa a mille all’ora, mi fanno entrare nel furgone, aprono la sacca, frugano, non c’è niente, “Párate derecho” mi dice uno, “Stai diritto”, mi viene davanti “abre sus piernas” “apri le gambe”, con la mano destra, senza preavviso, prende in mano i testicoli e con il dito medio schiaccia sotto, praticamente sul perineo, la zona che sta tra l’attaccatura dei testicoli e l’ano. Mi fa male, ma non c’è niente da sentire… mi guarda ancora e poi con un gesto della mano mi dice “Ok, vamos!”. Prendo la sacca ed esco, ho le gambe di gomma, e mi fanno male le palle, sono frastornato, sportello, timbro sul passaporto e sono fuori dal Marocco.

Spagna

Alla prima frontiera spagnola, quella ancora sul territorio di Ceuta, non ci guardano nemmeno, passiamo lisci come l’olio e finalmente ci imbarchiamo sul traghetto per Algeciras, c’è il sole, mare calmo, vento, facciamo la traversata sul ponte, l’immagine che mi si presenta all’arrivo non la dimenticherò mai.

Il traghetto si avvicina all’attracco e, mentre si abbassa il ponte per far scendere le automobili, vedo un solo doganiere, magro, con le braccia conserte, in mezzo al piazzale deserto. Fissa le auto, i furgoni ed i camper che sbarcano e con dei gesti misurati, indica la direzione: Al controllo! oppure via, liberi!

Mi vengono in mente Ennio e Margherita, Suki e tutti quelli come loro che vivranno questo momento, che incroceranno gli occhi di questo Caronte spagnolo. Penso ai racconti di quelli che erano stati nelle prigioni di Algeciras ed ai loro ritorni a casa, mi viene in mente quel film “Fuga di Mezzanotte” e mille altre cose.

Ad ogni modo noi scendiamo a piedi, c’è folla, nessun problema, siamo in Spagna, ora si tratta solo di tornare in fretta a casa, mediamente quello che abbiamo nello stomaco si può tenere per non più di trentasei ore.

Anche se  tra me e i due milanesi non c’è il benchè minimo feeling, per ottimizzare le spese ci sopportiamo.

Per fare in fretta prendiamo un taxi da Algeciras a Malaga perché là potremo prendere un treno veloce, arriviamo nel pomeriggio, mentre aspettiamo il treno vedo tre ragazze, sembrano inglesi, nel mio inglese stentato propongo di viaggiare insieme, tre noi, tre loro, occupiamo uno scompartimento e stiamo tranquilli, si fidano, saliamo insieme, cerchiamo di chiacchierare ma siamo tutti stanchissimi. Ad un certo punto arriva uno sui quarant’anni, apre la porta dello scompartimento e, in spagnolo, comincia a fare battute fuori luogo a sfondo sessuale, capiamo che non è a posto con la testa, le ragazze si agitano, lui è un po’ aggressivo, volgare. Mentre cerchiamo di mandarlo via le ragazze lasciano lo scompartimento per andare a cercare un capotreno o qualcosa del genere, noi alziamo la voce e lo mandiamo a quel paese, siamo tre, lui si allontana e non lo vedremo più, come le ragazze. Peccato, erano carine…

Restiamo lì a sonnecchiare ed a guardare la Spagna che scorre dal finestrino, per quanto mi riguarda lo stomaco è a posto, gli altri non so, non ci parliamo, loro sono altrove, brutta gente, non cerco nemmeno di migliorare il rapporto tanto è questione di una decina di ore poi non li vedrò più.

Quando arriviamo a Port-Bou è buio, cambiamo treno, loro infatti si siedono da un’altra parte, ci salutiamo freddamente, non gli chiedo nemmeno come stanno visto che hanno anche mangiato, da pazzi, con più di due etti di fumo nello stomaco. Io non ho minimamente fame, ho solo bevuto acqua, non gelata.

Casa

Arrivo a Genova che saranno le otto del mattino, ultimo cambio di treno, tre quarti d’ora e sono a casa, manco da circa tre settimane, non ho mai telefonato, nemmeno una cartolina, niente. Per i miei potrei essere morto. Con il senno di oggi mi rendo conto dell’enorme egoismo di quel comportamento. Non mi pentirò mai abbastanza di averlo fatto. Recupero le chiavi in fondo alla sacca e salgo in casa.

Mia madre è sulla porta con una espressione indecifrabile, “Mio dio!” dice, “Sei tutt’occhi!” Era un suo modo di definire qualcuno quando era troppo magro, “Non hai mai telefonato, ho rifatto tre volte lo stesso maglione!”, “Hai Fame?” … “No, ma devo andare in bagno”.

Epilogo

Sono passati più di quarant’anni, per i lettori va detto che alcune cose sono successe a me e altre sono racconti di amici, non credo sia importante sapere a chi è successo cosa, ma penso che in questa breve storia ci sia un pezzo della mia generazione, della sua incoscienza, di come ci abbiano sprofondati in certi inferni più grandi di noi e di come ci si illudesse di uscirne scappando a tremila chilometri di distanza. In qualità di sopravvissuto all’ecatombe delle droghe pesanti, più per fortuna che per merito, mi sento di dire che l’insegnamento più grande che ho avuto da quei tempi è che la tua guerra la devi vincere dentro, perché quando una guerra ti sceglie è per sempre e devi masticarla e digerirla fino in fondo, non c’è Marocco che tenga.

Neve

Tossiva e perdeva il respiro, ce la metteva tutta, scivolando e faticando a rimanere diritta, uno scarto a destra, uno a sinistra, emettendo rauchi rantoli mentre cercava di indietreggiare, sprecava energia annaspando, perdeva colpi, slittava incapace di trovare un appiglio, ci provava con tutte le sue forze ma, niente, rimaneva inchiodata lì a brontolare e a spandere odore di gomma bruciata, la mia povera macchina imprigionata nella neve.

Cane

Gli umani con cui vivo mi chiamano genericamente “cane”, hanno anche scelto un nome più elaborato al quale credono io risponda ma, in realtà, anche in ragione del fatto che mi danno mille nomi diversi, io più che altro, rispondo al tono e soprattutto alla loro chimica. Non sanno che io posso leggere in anticipo le loro emozioni dato che emettono quantità industriali di feromoni e, a quanto ho capito nei miei tre anni e mezzo di vita, non sanno minimamente controllare queste emissioni. Capita che mentre mi faccio i fatti miei in riva al fiume, percepisca una certa agitazione nell’odore che precede il richiamo, butto l’occhio e, se ritengo degna la preoccupazione dell’umano, faccio quello che loro chiamano “torna” e mi avvicino, appena la chimica cambia, ricomincio a farmi i fatti miei, al fiume c’è un sacco di roba da studiare e da catalogare nei miei trecento milioni di cellule olfattive, mica stiamo qui a pettinare le bambole!

L’umano più grosso ultimamente mi da da pensare, non che non mi tratti bene e non abbia attenzioni per me, condivide con me il suo cibo anche se non faccio “muso” come dice lui, cioè quando gli appoggio la faccia sulla gamba mentre mangia e, quando mi porta in giro, non mi strattona con quel cazzo di guinzaglio e mi lascia fare quello che voglio, però la sua chimica non è più la stessa, gli porto il mio pupazzo preferito, muovo le sopracciglia come piace a lui, se mi dice di non abbaiare lo faccio ma, niente, la sua chimica è debole, mi preoccupa. Molte delle parole che mi dice a voce bassa mentre mi gratta sotto le ascelle, cosa che peraltro apprezzo moltissimo, non le capisco, ma capisco che quella cosa fa bene anche a lui quindi, vista la preoccupazione che mi da, cerco di farglielo fare ogni volta che posso.

Non ho visto nessuno morderlo o picchiarlo, vedo che mangia abbastanza e non ha ferite, di notte fa come me, ogni tanto si alza, fa un giretto nella stanza dove di solito si lava e poi torna a dormire ma, se lo annuso da lontano mi preoccupa, chimica debole… Domani provo con la palla e con il mio corno di cervo da mordere, chissà magari anche lui vorrebbe un corno da mordere ed in casa c’è solo il mio, cercherò di fargli capire che, se lo vuole, può tenerlo.